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ELEPHANT
(ELEPHANT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 ottobre 2003
 
di Gus Van Sant, con John Robinson, Eric Deulen, Elias McConnel, Alex Frost, Carrie Finklea (Stati Uniti, 2003)
 
E' girata in venti giorni, costata una miseria di dollari, senza una sola star ma abitata da un gruppo di adolescenti selezionati fra tremila dilettanti di Portland la Palma d'Oro di Cannes 2003. Non bisognerebbe dire più di tanto di ELEPHANT, svelarne il procedimento, pubblicizzarne l'avvenimento fin troppo tristemente celebre verso il quale ci ricondurrà, ineluttabilmente, la sua conclusione. Ma come fare, in un universo mediatico nel quale lo spettatore entra in sala condotto per mano, informato sull'essenziale delle immagini che gli saranno fornite, obbligato in pratica a pensare ciò che più aggrada a chi ha investito a colpo sicuro su quelle che saranno le sue reazioni?

In effetti, vorrei potermi comportare come le camera di Gus Van Sant: incredibile personaggio di un universo, genericamente definito hollywoodiano, che di incredibile ha sempre di meno; capace di nutrirsi dapprima della geniale marginalità della cultura nuovaiorchese degli Anni Settanta (da William Burroughs ad Andy Warhol, alla Factory), di diventare in seguito la figura emblematica del cinema indipendente americano (DRUGSTORE COWBOYS, MY OWN PRIVATE OHIO), di rientrare clamorosamente, corteggiato, nel mondo degli studios con due fra i film più intelligenti dell'ultima Hollywood ( WILL HUNTING, SCOPRENDO FORRESTER). Per ricominciare da zero ("una ricerca di austerità"), in un processo di rimessa in questione squisitamente moderno, con due film di straordinaria essenzialità, GERRY nel 2001, ed ora questo ELEPHANT.

Quante volte ci siamo detti di quanto difficile fosse l'impresa di condurre a termine un buon film. Con ELEPHANT succede proprio il contrario: tutto è così semplice, e giusto, e vero nel film che la sua gestazione appare come un miracolo di naturalezza, dapprima; di efficacia, in seguito. Ecco perché vorrei adeguarmi a quella cinepresa: che cattura al volo e si incolla alla spalle di uno qualsiasi, poi due, tre, altri studenti mentre entrano nell'universo (risaputo, banale, ma naturalmente solare, spalancato alla vita di qualcuno che non ha ancora vent'anni) di uno dei tanti college americani. Van Sant si limita ad osservare, una fisionomia dapprima: mai che spieghi, interpreti, organizzi una psicologia, dei dialoghi, una situazione, tanto meno una progressione drammatica. Allo spettatore non rimane allora che seguire quello sguardo che passa, con incredibile, meravigliosa fluidità, con una musicalità che temiamo (giustamente…) possa interrompersi ad ogni istante, da un frammento all'altro di quella vita liceale, non particolarmente originale, non particolarmente ricca di avvenimenti, di luoghi privilegiati. Ma progressivamente, quasi loro malgrado, le coincidenze dei tragitti visivi, le informazioni che ci giungono da una ricchissima colonna sonora finiscono per condurci ad una delicatissima intimità con degli adolescenti che raramente ricordiamo di aver visti filmati così bene: con il ragazzo che vive in osmosi con la propria macchina fotografica, la ragazzona sgraziata che non riesce ad infilarsi come tutte le altre nella tuta sexy di ginnastica, il figliolo che vive una situazione familiare particolarmente dura, quello che suona Beethoven in attesa che il postino gli consegni un pacco tragico di conseguenze.

Progressivamente, quei gesti, quegli avvenimenti, quei rituali così normali si caricano di risonanze fantastiche, inesplicabili. E comprendiamo allora che tutti quei lunghi itinerari per i corridoi, apparentemente così leggeri, quasi grafici, astratti, metafisici, altro non sono che delle piste; tentate per esplorare (non di certo spiegare) i misteri di altri itinerari. Quelli così frementi, fragili e insondabili del momento più rivelatore di un individuo e della società che lo ospita, l'adolescenza.

Si dice degli elefanti che quando giungono in una città arrischiano di impazzire: gli studenti di ELEPHANT vivono in quel loro spazio protetto ed abitudinario, quasi a difendersi dell'ingiustizia e della violenza del mondo che li circonda. Gus Van Sant non spiega di certo perché quella diga finisca per incrinarsi. E' come se il suo film si riavvolgesse al termine sulla bobina per riproporsi all'infinito, in una meccanica che è tutta da interpretare: gli assassini di Columbine non erano fra i peggiori allievi, e nemmeno fra i più oppressi. E allora: perché?


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